
Nelle ultime settimane ho visto tre film dedicati al mondo della musica classica, un tema a me molto caro e relativamente poco esplorato dalla cinematografia contemporanea.
Ne sono uscita, nell’ordine, annoiata, irritata e perplessa.

Il primo film è “Tar” e ha per protagonista una bravissima Cate Blanchett calata nei panni (o meglio nel frack) di una direttrice d’orchestra di talento, afflitta da mille nevrosi e da una personalità prevaricatrice e prepotente da far impallidire molti suoi famigerati colleghi maschi. Senza dilungarmi troppo sulla vicenda, di costei viene messo in luce soprattutto il fatto che sia lesbica e che usi la propria posizione di potere per abusare sessualmente ed emotivamente di tutte le collaboratrici attraenti che le capitano a tiro. L’esile trama si dipana tra cliché, situazioni prevedibili e un paio di battute condivisibili - anche se appaiono piuttosto paradossali in questo contesto - sull’assurdità del politicamente corretto nel modo dell’arte e sulla ormai radicata tendenza della musica contemporanea a creare opere prive di qualsiasi reale novità o interesse estetico. Il finale raggiunge vette di un’assurdità sconcertante: il lato oscuro della Maestra viene finalmente esposto al pubblico ludibrio, lei cade in disgrazia e dal podio dei Berliner Philharmoniker finisce col dirigere musica di video games nel cinema di una sperduta cittadina asiatica. O forse si tratta solo di un’allucinazione dovuta all’esacerbarsi della sua nevrosi. Sic.

Il valore del secondo film che ho visto, Chevalier, si rivela tutto nei primi 20 secondi della pellicola: siamo nella Parigi del 1778, Wolfgang Amadeus Mozart, un compositore bianco, privilegiato, arrogante e di dubbio talento, sta dirigendo un concerto quando dal pubblico emerge baldanzosamente Joseph Boulogne Chevalier de Saint-George, giovane compositore nero e discriminato che sfida il rivale e si mette a suonare al violino della musica pop in salsa “classica" mostrando a tutti cosa significhi davvero essere un grande musicista.
Il film prosegue su questo registro, scodellando tutti i possibili luoghi comuni del pensiero “w*kista”, con dialoghi surreali in cui il Chevalier si rivolge alla regina di Francia Maria Antonietta con un tono che nessuna persona decente si permetterebbe di assumere nei confronti dell’ultimo dei mendicanti.
Gran finale, la madre del Chevalier gli spiega che i bianchi non accetteranno mai un musicista nero e che per essere felice lui deve trovare il proprio posto tra la propria gente, ragion per cui alla fine lo troviamo suonare della musica caraibica su un tamburo… non oso pensare cosa un compositore ambizioso come il protagonista di questa pellicola avrebbe pensato di un simile epilogo e del suo neanche tanto implicito intento di sminuire la grande tradizione musicale occidentale a cui il Chevalier aveva dedicato tutte le proprie energie e grazie alla quale si è ritagliato un sia pur piccolo - quanto commisurato al suo talento - nome nella storia.

Il terzo film, Il Boemo, anch’esso ambientato nel Settecento, era quello su cui le mie aspettative erano più alte: non solo mi intrigava il fatto che fosse dedicato a un compositore dimenticato come Josef Mysliveček, alla cui generosa personalità e terribile malattia Mozart dedica alcuni dei passaggi più commoventi del suo intero epistolario, ma è un film di un regista ceco, come Milos Forman, cui si deve il film Amadeus che devo aver visto almeno 10 volte quando uscì negli anni Ottanta, e Jan Svěrák, creatore di Kolya, altro film assolutamente delizioso dedicato a un violoncellista praghese all’epoca della Rivoluzione di velluto.
Ed effettivamente dei tre il Boemo è di gran lunga il migliore, con bellissime scene e costumi, tanto che alla fine quello che lascia più impressionati è l’abilità del truccatore di ricreare il volto devastato dalla sifilide del povero compositore. A parte questo la scena decisamente più bella - tanto da aver addirittura ottenuto un caloroso quanto insolito applauso dal gremitissimo pubblico della Cinematheque di Tel Aviv, dove ho visto la pellicola in occasione del Festival del Cinema della Repubblica Ceca - è quella dell’incontro tra il piccolo Mozart e Mysliveček, che riconosce il genio del bambino. Notevole anche l’ascolto e l’efficace messa in scena di varie arie del compositore boemo - c’è molta musica in questo film -, nelle quali si riconosce il terreno su cui si eleverà poi il genio mozartiano. Ma quello che manca del tutto è una chiave di lettura sulla personalità di Mysliveček: di lui sappiamo poco, stava quindi al regista raccontarci qualcosa, creare un personaggio, sia pure in larga misura immaginario. Siamo insomma ad anni luce da un film come “Tutte le mattine del mondo”, in cui la personalità dei compositori Jean de Sainte-Colombe e Marin Marais viene sviluppata creando una storia appassionante, coinvolgente e credibile o “Il pianista” di Polanski che a partire dal destino di un musicista ebreo riesce a rievocare potentemente il terrore e l’orrore della Polonia sotto il giogo nazista.
In conclusione, per paradosso, quello che davvero manca a questi tre film “musicali” è proprio la conoscenza, l’amore per la musica e soprattutto la capacità di raccontarla. Al loro posto domina il politicamente corretto, l’ideologia e una presunta fedeltà ai documenti storici che fa però da paravento a una fondamentale mancanza di immaginazione.

Attendo ora l’uscita del film su un altro compositore da me prediletto, Leonard Bernstein, un film già preceduto da penose polemiche sul fatto che l’attore principale si sia ingrandito il naso per assomigliare di più a Bernstein, cosa che ad alcuni imbecilli è parsa un sintomo di antisemitismo e di “appropriazione culturale”. Non so se il film sia bello o meno, ma so per certo che un attore è qualcuno che per mestiere deve appropriarsi della cultura e della personalità altrui e che queste polemiche fanno esattamente parte dello stesso problema da cui è nata la mia delusione alla visione dei tre film di cui sopra
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